don't look up

L’otto novembre del 2020 eravamo tutti intenti a ironizzare sulla fine grottescamente ingloriosa di Trump che, all’indomani della sconfitta elettorale, aveva chiamato a raccolta i suoi stati generali al Four Seasons di Philadelphia, ma non nel prestigioso hotel a cui aveva fatto pensare il primo tweet, ma al Four Seasons Total Landscaping, un’oscura azienda di giardinaggio che ha ospitato nello spoglio parcheggio, tra un forno crematorio e un sexy shop, la conferenza stampa di Giuliani la cui fronte era solcata dai rivoli scuri formati dalla tinta per capelli che stingeva.

Ma il meglio – si fa per dire – doveva ancora arrivare nel gennaio successivo con l’assalto a Capital Hill portato avanti da un gruppo di sostenitori complottisti filonazisti di Trump la cui impresa per espugnare il luogo sacro della democrazia americana ha richiesto loro uno sforzo di poco superiore rispetto a una passeggiata della salute. E mentre il resto del mondo seguiva gli accadimenti pervaso da un mix di allarme e riso amaro, i media italiani hanno impiegato tempi olimpionici a salutare come oriundo – e non senza compiacimento – tale Angeli, il tipo che nel gruppetto di assalitori spiccava facilmente per essere a petto nudo e con un paio di corna piazzate in testa. Ma la bella favola è finita presto: “Angeli” si è rivelato essere solo un nickname per un americanissimo tizio dell’Arizona

Va da sé che con simili premesse, la finzione può solo rincorrere la realtà, mentre la satira può al massimo denunciare la vita per appropriazione culturale o concorrenza sleale. “Sembra una puntata di Black Mirror” ha infatti sostituito “Non esistono più le mezze stagioni” che da luogo comune, con un colpo di coda, si smarca dalle conversazioni da pianerottolo per diventare una sintesi del disastro incombente: “Mio dio, non esistono più le mezza stagioni, i governi del mondo facciano qualcosa al più presto!”.

don't look up

È questo il contesto in cui è approdato prima al cinema, poi su Netflix, Don’t Look Up scritto e diretto da Adam McKay e interpretato da uno stuolo di attori e attrici da notte degli oscar. La dottoranda in astronomia Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) rileva la presenza di una cometa nel sistema solare, i calcoli del dottor Mindy (Leonardo Di Caprio) indicano che la cometa è inesorabilmente diretta verso la Terra: l’impatto, previsto in sei mesi, spazzerebbe via l’intero genere umano. Vengono allertati Nasa, autorità competenti e la presidente degli Stati Uniti Janie Orlean (Meryl Streep). L’evento viene minimizzato, i due scienziati irrisi finché per la presidente, coinvolta in uno scandalo, non diventa conveniente deflettere l’attenzione su qualcos’altro – l’impatto imminente – che le permetta anche di emergere come figura eroica, sul modello dei tanti presidenti USA rappresentati al cinema.

L’intento satirico del film è dichiarato ed evidente da subito. Quella rappresentata è una classe politica e dirigente caricaturale, cinica e vanesia, interessata alla perpetuazione del proprio potere e privilegio. Orlean non è semplicemente una leader arrogante e incapace, ma è proprio attivamente disinteressata a essere capace in alcunché che non sia assicurarsi di continuare a far parte dell’1% della popolazione in cima alla catena alimentare, quella catena saldamente in mano a tipi come Peter Isherwell (Mark Rylance) che incarna la quintessenza del magnate visionario e disumano, una summa dei vari Musk, Bezos e Zuckerberg.

Mindy lo dice chiaramente: l’emergenza è planetaria e come tale andrebbe gestita. Ma da subito è altrettanto chiaro che la cooperazione internazionale è la prima vittima sull’altare del profitto personale. In tutto questo, l’attenzione della cosiddetta gente comune è concentrata sul lifestyle delle celebrity che vivono a beneficio di camera. È facile non guardare in alto quando la tua intera vita passa attraverso uno schermo che teniamo in mano, inclusa l’informazione interessata più all’engagement generato da una notizia, che alla rilevanza e all’attendibilità della stessa.

don't look up

Perfino la professionalità e la competenza vengono valutate in base alla telegenìa: il mezzo è il messaggio, e se il veicolo non è appetibile allora non siamo interessati nemmeno al messaggio. Così Mindy, graziato dalle fattezze di Leonardo di Caprio e da un modo di fare rassicurante e rispettoso della catena di comando, diventa rapidamente l’immagine della scienza fino a essere sedotto e sedato da quelle stesse persone che proprio lui dovrebbe spingere verso misure drastiche ed immediate. Kate, al contrario, è stata estromessa da tutto: la brutale verità esposta senza mezzi termini è respingente, il pubblico vuole essere rassicurato e cullato nell’illusione del tutto andrà bene. E parlo di pubblico perché è altrettanto evidente che Orlean & Co non hanno nessuna intenzione di salvare il genere umano, si stanno attivando per salvare un pubblico di consumatori.

Dunque abbiamo un’emergenza planetaria, una inascoltata comunità scientifica con dati inoppugnabili alla mano, una deadline entro la quale è ancora possibile avere uno spazio di manovra per evitare il disastro, la necessità di adottare soluzioni prese di concerto tra tutti i governi del mondo, e i media che hanno abdicato al compito di fare informazione corretta e puntuale. Sì: la cometa è il cambiamento climatico. 

Adam Mackey ha scritto la sceneggiatura pensando proprio al cambiamento climatico e ben prima dell’emergenza covid-19, ma se qualcuno vuole vedere nel film anche rimandi alla gestione del virus, non va fuori tema: la satira di Don’t Look Up è un commento perfettamente calzante anche per l’attuale situazione. Anzi, potremmo considerare la pandemia come le prove generali per la vera emergenza, e non ce la stiamo cavando benissimo, perché come si evince chiaramente anche dal film: o ci salviamo tutti insieme, o non si salva nessuno. 

Don’t look up, per quanto graziato da interpretazioni eccellenti, spara però a salve. Il messaggio del film è inequivocabile: siamo agli sgoccioli e non stiamo facendo nulla, stiamo prendendo tempo quando il tempo è la prima risorsa che abbiamo esaurito. La scienza, compatta e chiara nello spiegare i pericoli e nell’indicare le possibili soluzioni, viene o derisa e marginalizzata (Kate), oppure ascoltata, ma solo sotto forma di rassicuranti divulgatori che aumentano lo share. Tutto questo è però già davanti ai nostri occhi, e una pellicola del genere ha solo il merito di mettere in bella copia quello che già sappiamo e viviamo quotidianamente. Il film non scuote mai davvero, non diventa mai davvero spaventoso, disperato, dissacrante. La satira dovrebbe colpire i potenti, e la classe politica e il mondo giornalistico in effetti ne vengono fuori malissimo, ma non in un modo inaspettato o portatore di una qualche riflessione che non sia possibile attuare semplicemente guardandosi intorno. Don’t Look Up non aprirà gli occhi a nessuno, non convincerà nessuno che non sia già convinto, non darà il la a conversazioni che già non siano in atto. Può darsi, però, che porti qualche premio alle sue star, e anche meritatamente visto che sarà grazie alle grandi performance del cast se il film sopraviverà nella memoria.

Meryl Streep ormai indossa come una seconda pelle i ruoli in cui le viene chiesto di trasformarsi in uno squalo egocentrico e stiloso e la sua presidente Orlean fa bella mostra di sé nella galleria dove figurano i ruoli in She-Devil, La Morte ti fa bella, Il Diavolo veste Prada, ma quando abbiamo avuto sotto gli occhi quattro anni di presidenza Trump, cosa ci può offrire la finzione? 

Jennifer Lawrence ha poco su cui lavorare, l’arco evolutivo del suo personaggio consiste nel finire con un fidanzato migliore rispetto a quello iniziale,  ma va detto che il suo antagonismo con il figlio della presidente è uno degli aspetti più divertenti del film.

Cate Blanchet è sfavillante come sempre, ma è il dottor Mindy di Leonardo Di Caprio l’unico personaggio con un arco narrativo ben sviluppato, si potrebbe quasi parlare di viaggio dell’eroe se non fosse per il fatto che nel film non ce ne sono, e questo è un merito di McKay che all’eroe preferisce la brava persona, quella che magari si perde anche per strada a un certo punto, ma che fa quello che può con quello che ha a disposizione. 

Il grande assente di Don’t Look Up è il genere umano da salvare. Il motore della storia è “Se non facciamo qualcosa moriremo tutti!”, ma da quello che viene mostrato non c’è nessun motivo per il quale l’annientamento della specie umana come insieme sarebbe una così grave perdita.

A inizio film vediamo un pupazzetto di Carl Sagan che Mindy prende in mano dicendo: “Cosa farebbe Carl Sagan?”. Ecco, Sagan inizierebbe a dirci perché questo pallido puntino blu sospeso in un raggio di sole dovrebbe continuare a essere la nostra casa.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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